Caro Patron,





Vi scrivo una lettera dopo una prova in cui ho detto delle vostre parole. Le ho dette a me stesso, le ho dette a Giulia che era Claudia, le ho dette ai ragazzi, le ho dette a un pubblico ancora immaginario. Domani non lo sarà più. Sarà il "pubblico" vero, l'unico, eterno, uguale pubblico di sempre...



Ci siamo nutriti con grande commozione, con una enorme gratitudine dei vostri pensieri, ed io questa notte non so dirvi molto. Come sempre i pensieri e le parole sono confuse, ma le sensazioni nette e chiare.



Mi avete insegnato voi a non cercare di capire "troppo" nel teatro. Mi avete detto voi: l'intelligenza per un attore è sentire molto alto. E mi avete detto voi: l'albero che cresce non pensa di crescere. Cresce e basta. Pure anche in me, come in voi, c'è questo bisogno di capire, di pensare al teatro, al nostro mestiere. "Come si può fare teatro senza pensare al teatro?", dicevate.



A me viene da scrivere: come si fa a resistere tanti anni, dentro questo mestiere che ha sempre in sè qualcosa di infame e di indegno, qualcosa di vano e di inutile? Avete resistito voi fino all'ultimo. Sto resistendo anch'io. E forse solo oggi sono riuscito finalmente a capire quello che volevate, dicendomi una sera, dopo una recita proprio del don Giovanni, ad un tavolo anonimo e per me indimenticabile:"gli attori non hanno vocazione. Se viene, per gli attori, viene dopo. Arriva alla fine". Furono queste esattamente le vostre parole.



Nella mia giovinezza entusiasta, vi ascoltavo. Qualcosa capivo. Ma questo non lo potevo capire. Mi sentivo "assolutamente votato" in quel momento, al teatro. Ero follemente pieno di "vocazione teatrale", di stupore, di amore teatrale, di passione teatrale. Perchè, perchè avrei dovuto aspettare "alla fine"?



Sono passati anni ed anni di pratica e di mestiere. Lunghissimi e rapidissimi, uno spettacolo dopo l'altro, una voce, un suono, una luce dopo l'altra e sono arrivato quì, a questo desolato "dopoprova", solo nella penombra della stanza, alla mia vecchia macchina da scrivere che perde i colpi e si mangia le parole troppo consunte. A parlare con me stesso e al mondo che assolutamente non sente, ancora del teatro. Ad essere ancora nel teatro, direi senza pietà, senza riserve, disperatamente "toccato" dal Teatro come, per chi crede, dalla Grazia.



E vi scrivo per farvi sapere, in qualche modo, che adesso, solo adesso, ho capito. Che solo adesso nell'angoscia estrema, nella stanchezza estrema, nella nausea estrema, nel rifiuto estremo del teatro, non potendolo rifiutare perchè più forte di me, più forte di tutto, adesso so cos'è non la "passione teatrale" (quella era così facile, così calda, così immemore e felice!) ma la "vocazione teatrale", che è pietra e sangue.



Proprio adesso che è tanto tardi so che questa vocazione mi possiede tutto e che prima mi ha messo solo alla prova. Forse anche quella di oggi è ancora una prova. Ma se prova è essa è estrema. E' l'ultima. Patron, si io sto vivendo, accanto a voi, l'ultima prova d'amore che il teatro mi chiede. Ora non posso proprio dargli di più. Non mi è rimasto niente. Sono finalmente e totalmente spossato di me. Resta solo lui, fuoco che brucia con un fulgore insostenibile, senza fiamma. E senza cenere.



Come astro che sparge i suoi atomi nell'Universo.



Amen.





Giorgio Strehler

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